
Il racconto di Larissa
Mi chiamo Larisa. Sono ucraina, nata a Mariupol.
Quando la guerra è cominciata, vivevo a Vinnytsia. I segnali c’erano da tempo: i giornali ne parlavano, la televisione rilanciava ogni giorno voci, previsioni, analisi. Non si conoscevano ancora l’ora e il giorno esatto, ma nell’aria si respirava già l’attesa di qualcosa di terribile. Così, all’inizio del 2022, avevo preparato una valigia d’emergenza. Dentro avevo messo i documenti, qualche abito, le medicine essenziali, un po’ di contanti. Le cose che si prendono quando non si sa se si potrà tornare.Alle quattro o forse cinque del mattino del 24 febbraio 2022 è squillato il telefono. Era mia figlia. «Mamma, è cominciata la guerra. Esci subito. Prendi la borsa ed esci di casa. Poi capiremo dove andare.»
Pochi minuti dopo, i miei figli erano già lì. Sono medici militari. Avevano ricevuto l’ordine di rientrare immediatamente in caserma. Avevano solo un’ora di tempo per trovare qualcuno a cui affidare le bambine. E quel qualcuno ero io.
Mia figlia e mio genero mi portarono al mio posto di lavoro. L’edificio in cui lavoravo aveva un seminterrato usato come poligono di tiro: uno spazio solido, profondo, che poteva diventare rifugio.
Alle sei del mattino eravamo già lì. Fuori, si sentivano le prime esplosioni. Arrivavano dall’aeroporto di Vinnytsia. La guerra, quella vera, era cominciata.
Io sono un’operatrice sanitaria. Nelle prime ore del conflitto, il mio compito fu quello di accogliere i profughi interni, chi fuggiva da altre città, e aiutare nella distribuzione del cibo. Nessuno sapeva da dove, ma i rifornimenti arrivavano: latticini, carne, pane, riso, cereali. Persino frigoriferi. C’era da nutrire centinaia di persone. Era un lavoro incessante, fisico, mentale. Indescrivibile.
Intanto, con me c’erano le mie due nipotine. La nostra famiglia prese una decisione: dovevo portarle in Svizzera, dove vive mia figlia minore con il marito. Le bambine dovevano raggiungere un luogo sicuro: i loro genitori erano in servizio, e nessuno sapeva cosa sarebbe potuto accadere.
Così, il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione, eravamo già in viaggio verso il confine con la Moldavia. Lì incontrai una famiglia: lui era moldavo, lei un’ucraina di Vinnytsia. Anche loro portavano i figli dalla nonna. Io avevo con me le mie nipotine e il nostro cane. Attraversammo il confine insieme, come fossimo una sola famiglia.


Dalla Svizzera, mia figlia minore e suo marito vennero a prenderci in macchina. Attraversammo Romania, Austria, Germania. Poi la Svizzera. La guerra, per me, si fermò lì. Due giorni: tanto ho vissuto del fronte attivo. Ma sono stati due giorni che non si cancellano.
In Svizzera mi sono fermata con le bambine. Le ho iscritte a scuola. Poco tempo dopo, anche mia figlia maggiore fu mobilitata. Ma, poiché in famiglia c’erano ancora figli minori, le autorità permisero che solo uno dei due genitori in servizio venisse richiamato. Così lei raggiunse la Svizzera, e io tornai in Ucraina. Di nuovo a Vinnytsia. Era il 2023, e sarei rimasta lì anche per gran parte del 2024.
Vivere in Ucraina durante la guerra è dura. Psicologicamente devastante.
Abitavo al nono piano. Spesso mancava la corrente. Gli allarmi suonavano soprattutto di notte. Bisognava scendere a piedi nel rifugio nel seminterrato. Lì c’era luce automatica, cibo conservato, tutto organizzato. Ma succedeva spesso che, una volta giù, l’allarme fosse già cessato. Si risaliva. Poi ricominciava a suonare. Di nuovo giù. Di nuovo su. Tutta la notte così. Giorno dopo giorno, il mio fisico ha cominciato a cedere.
I miei figli erano preoccupati. Mi hanno chiesto di rientrare in Svizzera. E così ho fatto. Oggi sono qui.
Ma non ho mai smesso di sognare di tornare a casa.
Ho vissuto a lungo in Russia: dopo gli studi ho abitato a Leningrado, poi Mosca, Omsk, Novosibirsk, perfino nel Kazakistan orientale. Ma il mio legame con l’Ucraina non si è mai spezzato. Quando alla TV trasmettevano qualcosa in ucraino, o quando incontravo altri ucraini anche a migliaia di chilometri da casa, per me era una festa. Una piccola scintilla di patria lontano da tutto.
Nel 1991, quando ci fu da scegliere se restare a Mosca o tornare in Ucraina, non avemmo dubbi: giurammo fedeltà all’Ucraina. E tornammo.
Ora tutta la mia famiglia è in Svizzera, e resterò qui finché la guerra non sarà finita. Finché ci saranno spari, bombe, distruzione. Ma se oggi, o anche domani, qualcuno mi dicesse che la guerra è finita, io partirei subito. A Rivne ho un fratello, una cognata. È una città che amo. Vorrei vivere lì. In Svizzera tornerei solo in visita.
Non voglio restare qui per sempre. Non voglio morire qui. Voglio tornare in Ucraina.
Le mie figlie vivono in Svizzera, e lì rivedrò le mie quattro nipotine. Ma la Svizzera, come diciamo noi, “non è un pezzo di pane tagliato per me”. È sicura, bella, civile, sì. Ma non è mia.
In Ucraina è tutto mio. Tutto mi è familiare.
Lì la vita è come l’abbiamo sempre conosciuta. E se una volta sono tornata, tornerò ancora.