black and white bed linen

La storia di Lyudmila.

Buongiorno, mi chiamo Lyudmila e vengo da Odessa, nel sud dell’Ucraina. Ho sempre vissuto in un villaggio della regione, una zona in cui si parla principalmente ucraino. Per me l’ucraino non è solo una lingua, è parte della mia identità, delle mie radici. Non ho mai sentito il bisogno di una “seconda lingua”, e oggi — con la guerra — sento ancora più forte questo legame. Odessa è una città dove convivono tante culture e nazionalità, è vero. Alcuni parlano russo, altri ucraino, ognuno è libero di scegliere. Ma nessuno dimentica che siamo in Ucraina, e che Odessa è e resta ucraina.

Ricordo perfettamente il giorno in cui è iniziata la guerra. Era mattina presto, mia figlia mi ha telefonato e con voce tremante mi ha detto: «Mamma, è scoppiata la guerra». Ho risposto d’istinto: «Non può essere». Non volevo crederci. Ma era vero. Putin aveva attaccato l’Ucraina. Sono rimasta paralizzata, in uno stato di incredulità e paura. Sono una persona molto emotiva, vivo tutto intensamente, e quella notizia mi ha devastata. Mi sono precipitata al mercato Privoz, dove lavorava mia figlia: c’era già un’enorme confusione, la gente piangeva, era sotto shock. Tutti ci guardavamo negli occhi, come per cercare una conferma che non fosse vero.

La mia figlia più giovane si trovava in Germania per lavoro. Appena saputo dell’invasione, ha cominciato a insistere perché lasciassi il Paese. Ma non era semplice. I miei figli maschi, adulti e molto legati alla patria, mi hanno detto: «Noi restiamo. Questa è casa nostra». Erano pronti a difendere la loro terra. Anche io ero combattuta. La figlia maggiore, malata di tumore, ha preso la decisione di partire per prima. Io sono rimasta ancora per due lunghissimi mesi. Le notti erano un incubo: le sirene, la corsa al rifugio, l’ansia continua. Il rifugio era a due isolati da casa nostra. Mio marito, purtroppo, non voleva sempre venire con noi, ma io non ce la facevo più. A un certo punto è stato proprio lui a dirmi: «Andiamocene, per te è troppo».

Così, grazie a un autobus gratuito organizzato da volontari, siamo riusciti ad arrivare in Germania. Il primo impatto è stato difficile ma pieno di umanità: dei moldavi ci hanno ospitato per la notte, e il giorno dopo i volontari ci hanno distribuito cibo, acqua e tutto il necessario per affrontare il viaggio. Poi ci hanno messi su un altro autobus diretto in Svizzera. Mio nipote mi aveva detto: «Nonna, vieni in Svizzera. È un Paese bellissimo, ti piacerà». Aveva ragione.

A Zurigo siamo stati accolti con grande gentilezza. I volontari ci hanno procurato i biglietti gratuiti per il viaggio e, una volta arrivati, ci hanno chiesto dove volessimo andare. Io, confusa e senza un’idea precisa, ho detto semplicemente: «In una grande città». Così siamo rimasti lì. Anche a Zurigo c’erano tanti rifugiati ucraini, e l’accoglienza è stata straordinaria.

Abbiamo passato i primi giorni in un centro d’accoglienza, poi ci hanno trasferiti in un altro, e infine in una struttura che sembrava un hotel, curata e accogliente come un sanatorio. Dopo qualche tempo, una famiglia svizzera ci ha aperto le porte della propria casa. Da allora sono passati tre anni. Viviamo con loro, al piano terra della loro casa a due piani. È una famiglia meravigliosa: i figli, ormai adulti, vivono altrove, e noi abbiamo uno spazio tutto nostro, con una stanza, una cucina, la lavatrice, un piccolo giardino e perfino una veranda. È come vivere sotto la protezione del Signore, davvero.

Naturalmente non è tutto facile. A causa dell’età, né io né mio marito riusciamo a trovare lavoro. All’inizio mi sembrava di impazzire: piangevo spesso, convinta che saremmo rimasti solo per poche settimane. Invece i mesi sono diventati anni, e la guerra non è finita. Oggi riceviamo un sostegno che ci permette di vivere con dignità. Abbiamo imparato a risparmiare, a fare la spesa in modo oculato, compriamo il latte direttamente in fattoria e produciamo da soli burro e formaggio. La vita qui è serena, c’è pace, sicurezza, ordine. Ma il cuore resta altrove.

Ci manca la nostra casa. Ci manca la nostra Odessa, la nostra Ucraina. Vogliamo tornare. Siamo persone abituate a lavorare, a occuparci degli altri. Qui spesso ci sentiamo inutili, sospesi. Ma siamo anche pieni di gratitudine: la Svizzera è un Paese giusto, generoso, con regole chiare e rispetto per le persone. Non dimenticheremo mai ciò che abbiamo ricevuto.

Ma il sogno resta sempre lo stesso: tornare un giorno nella nostra terra, rivedere Odessa, e ricominciare da lì.