
Olga, da Bryanka alla Svizzera: il lungo cammino di una madre per salvare suo figlio.
Mi chiamo Olga e la mia storia inizia a Bryanka, una piccola città della regione di Luhansk, nell’Ucraina orientale. Era la mia casa, il luogo in cui ero cresciuta e dove avevo immaginato di costruire la mia vita. Ma nel giugno del 2014 tutto cambiò: scoppiò la guerra e la nostra regione venne occupata. Ricordo ancora quel senso di angoscia, la paura che ti stringe il petto, la necessità di proteggere ciò che avevo di più caro.
Così, con mio figlio ancora nel grembo, presi la decisione più difficile della mia vita: fuggire. Lasciai tutto alle spalle, tutto ciò che conoscevo, per cercare un rifugio altrove.
Mi trasferii a Kharkiv, dove nacque mio figlio, in un ospedale di maternità della città. Per tre anni cercai di ricominciare da zero: vivevamo in appartamenti in affitto, affrontavamo difficoltà economiche, e il peso emotivo era spesso schiacciante. Eppure, proprio in quel momento così fragile, Kharkiv mi tese una mano. Ricevevo aiuti alimentari per mio figlio, medicine, visite mediche: piccoli gesti che facevano una grande differenza. Sentivo di non essere sola.
Nel 2017 ci trasferimmo a Izjum. Ci assegnarono una piccola casa gratuita, immersa nel verde, con un orto alle spalle, i boschi che si stendevano all’orizzonte e il profumo degli abeti. Un fiume calmo scorreva vicino alla città. Mio figlio iniziò l’asilo, poi la scuola. Finalmente avevo l’impressione che la nostra vita stesse ritrovando un equilibrio.
Ma nel marzo del 2022, l’incubo tornò. Era il 5 marzo quando un bombardamento distrusse la sottostazione elettrica della città: rimanemmo senza elettricità, senza gas, senz’acqua. I negozi erano chiusi, e l’unico suono era quello delle esplosioni. Per telefonare bisognava salire sulle colline, in cerca di un debole segnale. La città fu occupata. Non c’erano più vie d’uscita.
Ad aprile presi una nuova, dolorosa decisione: dovevamo fuggire di nuovo, a ogni costo. Partimmo da Kupjansk e riuscimmo ad attraversare il confine entrando in Russia. Da lì proseguimmo in treno fino a Mosca: era l’unico percorso possibile, tornare in Ucraina era impensabile. A Mosca cercammo una via per raggiungere l’Europa. Venimmo a sapere che da Kaliningrad si poteva tentare.
Lungo la strada incontrammo un’altra famiglia in fuga: tre adulti e un bambino, anche loro originari di Kupjansk. Diventammo compagni di viaggio. Condividemmo notti in alberghi modesti, pasti improvvisati, speranze, paure.


A Riga, trovammo un angelo inatteso: padre Mikhail, un sacerdote che ci attese alla stazione, ci offrì un pasto caldo, un letto dove riposare, indicazioni per proseguire il nostro viaggio. In ogni tappa trovavamo qualcuno pronto ad aiutarci. Alcuni si fermarono a Berlino, altri continuarono. Noi andammo avanti fino ad arrivare in Svizzera, il 9 maggio 2022.
Qui cominciò una nuova fase della nostra vita. Una famiglia svizzera ci accolse con un tetto sopra la testa, un sorriso sincero e un po’ di pace. La lingua era una barriera, ma i gesti parlavano per noi. Non avevo mai lasciato l’Ucraina prima della guerra: all’inizio non sapevo nemmeno come si comprasse un biglietto dell’autobus. Ogni cosa era nuova, difficile, a volte spaventosa.
Ma poco a poco le cose cambiarono. Mio figlio fu inserito nella scuola del paese. Si impegnò moltissimo, tanto da diventare uno dei migliori della classe. Scoprì nuove passioni: la danza, il calcio, il karate, lo sci. Io trovai lavoro in un hotel già dal primo luglio e iniziai a studiare il tedesco. All’inizio anche la pubblicità in quella lingua mi sembrava un rumore fastidioso, ora cerco di capire ogni parola.
Ho scoperto quanto la bellezza possa aiutare a guarire: le montagne, i laghi, i villaggi ordinati. La parrocchia organizza attività, i bambini disegnano, e anche noi adulti partecipiamo. Alcuni di quei disegni ora decorano le fermate degli autobus in Liechtenstein.
La paura che ci aveva accompagnato per anni si è pian piano attenuata. Non ho mai preso antidepressivi, anche se a volte mi sentivo sul punto di crollare. Ma sapevo che dovevo resistere, per mio figlio. In Ucraina non avevamo più un luogo dove tornare: l’appartamento di famiglia a Luhansk è rimasto là, e la casa di Izjum era solo un rifugio temporaneo.
Ora penso solo a costruire un futuro migliore per lui. Qui ha più possibilità di crescere sereno, di sviluppare i suoi talenti. Suo padre è venuto a trovarci: presta servizio nell’esercito ucraino. Anche quell’incontro è stato un dono.
La comunità ucraina qui si ritrova nei caffè: i bambini disegnano, noi adulti parliamo, ci sosteniamo a vicenda. A volte riceviamo prodotti della nostra terra: halva, aringhe, adjika… E io sogno, un giorno, di poter stringere tra le mani un libro ucraino. Perché leggere, per me, è come tornare a casa. Anche solo con la mente.