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Tatiana, rifugiata in Svizzera: “Il mio cuore è rimasto a Kyiv"

Buongiorno, o forse buon pomeriggio... Mi chiamo Tatiana. Vivo in Svizzera da quando la guerra è entrata nella mia vita. O meglio: da quando la guerra mi ha strappata alla mia casa, alla mia quotidianità, alla mia città, Kyiv. Fino a quel momento vivevo lì, nella capitale, nella mia amata Kyiv. Era la mia vita, la mia normalità. Ma all’inizio dell’invasione russa ho dovuto partire.

Qui in Svizzera vive mia figlia, insieme a suo marito e ai loro due bambini. Si era sposata con uno svizzero anni fa. Quando sono cominciati i bombardamenti, non ha esitato un attimo. Mi ha chiamata e con voce ferma, ma piena di urgenza, mi ha detto: «Mamma, prendi l’aereo. Vola via, subito». Sono riuscita a partire appena in tempo: ho preso letteralmente l’ultimo volo in partenza da Kyiv, dodici ore prima della chiusura totale dell’aeroporto. Ricordo il panico con cui ho fatto la valigia, un piccolo trolley con dentro solo l’essenziale. E poi via. Un addio veloce, confuso, pieno di dolore.

Quei primi giorni sono ancora vivi nella mia memoria. Guardavamo la televisione, io e mia figlia, piangendo per le immagini delle bombe che cadevano sulle nostre città. Era tutto troppo assurdo. E oggi, a distanza di tempo, Kyiv continua a essere colpita ancora più duramente. So che nel mio quartiere, a soli cinquecento metri da casa nostra, sono caduti tre missili balistici. Le finestre delle case sono esplose, i muri lesionati, il quartiere danneggiato. Non so nemmeno trovare le parole per raccontarlo.

Eppure adesso, da qui, sento gratitudine. Perché non sento più il suono delle sirene. Perché posso svegliarmi la mattina senza la paura negli occhi, senza dover correre in un rifugio. Vivo in pace. E questo, dopo tutto quello che abbiamo vissuto, è già tanto.

Penso spesso alle donne rimaste in Ucraina. So quanto stanno soffrendo. Lo sento, lo porto dentro. Qui frequento un corso di tedesco una volta alla settimana. Nel gruppo c’è anche una donna che viene da Vovchansk: la sua città è stata completamente distrutta. Non è rimasto nulla, nemmeno un solo edificio in piedi. Nessuna casa, nessun rifugio. Lei non ha un posto dove tornare. È una tragedia che fa male anche solo a raccontarla. Davanti a queste storie, sento una compassione profonda. Un dolore muto, che non si può spiegare.

Non riesco nemmeno a dire che odio i russi. No, non è neppure odio. È solo che non voglio più avere niente a che fare con loro, con chi ha distrutto la nostra vita. Qui, in Svizzera, spesso tra profughi parliamo anche in russo. Ma io amo la lingua ucraina: è la lingua della mia anima. E ogni volta che posso, propongo agli altri: «Parliamo ucraino, per favore». Anche con la mia amica Maria, che è di Kyiv come me, e con mia figlia e la sua famiglia, parliamo solo ucraino. In quei momenti, il cuore si alleggerisce. Mi sembra, per un attimo, di essere di nuovo a casa.

Penso spesso al ritorno. Tornerò appena finirà la guerra, appena ci sarà la possibilità di rientrare in sicurezza. Ma lo farò solo in aereo: non potrei affrontare un viaggio estenuante in pullman o in treno, trenta ore su strade infinite. Tornerò nel mio appartamento, nel mio quartiere, a Kyiv. Nonostante tutto, continuo a pagare le bollette, le spese condominiali. Voglio poter tornare a casa senza chiedere nulla a nessuno, sulle mie gambe.

Vivo con la mia pensione, piccola ma sufficiente. Arriva regolarmente sulla mia carta. Ricevo anche un piccolo sostegno economico qui in Svizzera. Non mi manca nulla. Ho una mia stanza, vivo in modo dignitoso. So che molto di questo è grazie a mia figlia, ma anche le istituzioni svizzere mi hanno trattata con rispetto. E di questo sarò sempre riconoscente.

Telefono raramente alle mie amiche rimaste in Ucraina. Le sento tristi, stanche, depresse. E cosa potrei mai dire loro? Io qui vivo, come si dice, “nel cioccolato”, e loro laggiù soffrono. Le penso ogni giorno, ma evito di raccontare troppo della mia vita qui. Non voglio ferirle. Non voglio che si sentano peggio a causa mia.

Molti, negli ultimi mesi, sono tornati in Ucraina, nonostante tutto. Nel nostro palazzo a Kyiv, nove piani e due vani scala, sono rimasta l’unica ancora all’estero. Ma io ho qui mia figlia, mio genero, i miei due nipoti: Philip e Constance. Vanno all’asilo, a scuola. Mia figlia lavora all’aeroporto di Zurigo, ha una posizione di responsabilità. Si è specializzata in gestione delle risorse umane studiando per due anni qui in Svizzera, e proprio in quel periodo è nata Constance. Io non ero ancora arrivata per aiutarla, e poi è arrivato anche il Covid. L’aeroporto è stato chiuso, come tutto il mondo. Tanti hanno perso il lavoro, ma lei è riuscita a mantenere il suo posto. Ha affrontato tutto con forza.

Desidero tornare. Più di ogni altra cosa. Tornare nella mia terra. Andare al cimitero, visitare la tomba di mio figlio. È un pensiero che non mi abbandona mai. Voglio sistemarla, portare dei fiori. È sepolto lì. E ogni giorno, da qui, sento quel richiamo. Il mio appartamento? Ormai non mi importa quasi più. Quel che sarà, sarà. Ma c’è una cosa a cui tengo ancora: una pianta di ficus. Una piantina che mio figlio mi aveva regalato. All’inizio era minuscola, due foglioline. Ora è diventata enorme. Quella pianta è la mia memoria, è il legame più profondo che conservo. Tutto il resto, davvero, può anche cambiare. Ma quello no.

So che, rispetto a tante altre persone, la mia sorte è stata più leggera. Non ho motivi per lamentarmi. Vivo al sicuro, sono circondata dalla mia famiglia.

E allora non posso che dire, con tutto il cuore: grazie. Alla Svizzera, a mia figlia, alla vita che mi ha protetta. Ma il mio cuore resta là, in Ucraina. E sogna, ogni giorno, di tornare.