
La storia di Vlad: da Kyiv alla Svizzera.
Mi chiamo Vlad e vengo da Kyiv. Prima della guerra vivevo con la mia famiglia sulla riva sinistra del Dnipro, non lontano dall’aeroporto di Boryspil. Ricordo benissimo quel giorno: era il 24 febbraio 2022. Mi sono svegliata alle cinque del mattino, come tante altre persone in Ucraina, al suono delle esplosioni. All’inizio non volevo crederci. Pensavo fossero fuochi d’artificio, o qualche altro rumore innocuo. Ma poi mio padre è entrato di corsa nella mia stanza, ha spalancato la porta e mi ha detto: «Prepara le valigie, subito». In quel momento ho capito che stava davvero cominciando qualcosa di terribile.
Siamo saliti in macchina con l’idea di accompagnare mia madre al lavoro, sulla riva destra del fiume, e poi tornare a casa la sera stessa. Ma quella macchina non è mai più tornata indietro. Da quel giorno, sono passati ormai tre anni, e io non ho più messo piede nella mia casa.
Durante il tragitto ci siamo fermati per chiedere informazioni. Alcuni ci hanno detto che non aveva senso andare a lavorare, che era meglio cercare un posto sicuro. Così abbiamo deciso di andare a Irpin’, dove viveva mia nonna, più lontano dalla zona in cui stavano entrando i russi. All’epoca ci sembrava una scelta logica, ma si rivelò un errore. Per arrivare a Irpin’ ci abbiamo messo quasi quattro ore: c’erano ingorghi ovunque, code infinite. Era spaventoso. Sentivamo i bombardamenti avvicinarsi, e non sapevamo se restare in macchina o scendere. Ci ponevamo mille domande, ma non avevamo nessuna risposta. Nessuno di noi aveva mai vissuto qualcosa del genere.
Quando siamo arrivati a Irpin’, la situazione è rapidamente peggiorata. Gli attacchi si facevano sempre più intensi: elicotteri sopra le nostre teste, esplosioni sempre più vicine. Non sapevamo se fosse più sicuro rimanere nell’appartamento o cercare rifugio altrove. Avevo tanta paura, ma cercavo di restare forte, per non far preoccupare mia madre e mia nonna. Pensavamo di passare lì solo la notte e tornare a Kyiv la mattina seguente. Ma poi è arrivata una telefonata. Era un collega di mia madre, che lavora nei servizi di sicurezza: le disse di non aspettare, di andarsene subito.
Ricordo bene quel momento. Eravamo in macchina, stavamo aspettando un'altra persona che doveva unirsi a noi. A un certo punto si è avvicinato un poliziotto e ci ha chiesto cosa stavamo facendo. Gli abbiamo spiegato che aspettavamo qualcuno. Ci ha guardati per qualche secondo e poi ha detto: «È già arrivato. Andate via immediatamente». Così siamo ripartiti, senza più esitazioni.
Eravamo in sei: io, mia madre, mio zio, mia nonna e due uomini. Per un po’ restammo bloccati nel traffico: caos ovunque, gente che guidava contromano, auto abbandonate ai bordi della strada, la polizia che cercava di dare un minimo di ordine. Abbiamo perfino visto passare dei carri armati diretti verso Kyiv. Sembrava un film, ma era la realtà.


Siamo riuscite ad arrivare a Vinnytsia, da alcuni parenti. Lì siamo rimaste circa tre settimane. Eravamo in tanti in una casa piccola: dieci, forse undici persone, con un solo bagno. Era scomodo, ovviamente. Avevamo pochi vestiti, perché nessuno di noi immaginava che saremmo andati così lontano, né che ci saremmo fermati per tanto tempo. Anche lì, però, non eravamo al sicuro: abitavamo vicino a una fabbrica considerata obiettivo militare. Una notte fu colpita una torre delle telecomunicazioni e restammo senza nessun canale di comunicazione. Anche se altrove andava peggio, la paura era costante.
Dopo Vinnytsia ci spostammo a Khmelnytskyi, da altri parenti. In realtà non volevamo lasciare l’Ucraina. Ci sembrava giusto restare, resistere. Ma dopo un altro attacco, mia madre prese una decisione difficile: non poteva più mettere a rischio la vita di una ragazza di quindici anni – io – e di un’anziana come mia nonna. Così abbiamo preso un autobus in partenza da Leopoli, senza sapere neanche dove saremmo finite. All’inizio ci dissero che saremmo andate in Belgio, poi in Svizzera, poi in Germania… la destinazione cambiava continuamente. È stato un viaggio lungo e difficile, con una sosta in Repubblica Ceca, dove mia nonna ha avuto un infarto. È stato un momento terribile. Ho pianto tantissimo. Pensavo che sarebbe morta, o che ci avrebbero lasciate lì. Ma, grazie a Dio, si è ripresa. E alla fine siamo arrivate in Svizzera.
In Svizzera siamo state accolte da volontari. All’inizio non è stato facile: nessuno voleva ospitarci perché mia nonna aveva bisogno di una casa al piano terra, e molte famiglie non potevano offrire quella possibilità. Alla fine, però, abbiamo trovato una persona che ci ha accolte. E da allora viviamo con lei. Sono passati tre anni.
Ora mia madre lavora e io studio in un liceo svizzero. Quest’anno mi diplomo, e il mio sogno è continuare a studiare psicologia, magari all’università di Zurigo. Vorrei capire meglio le persone, i traumi, le emozioni. Un giorno, chissà, magari potrò usare quello che ho imparato per aiutare altre persone che hanno vissuto cose simili a me.
Anche se qui la vita è serena, ci manca moltissimo mio padre. Non lo vedo da quel 24 febbraio. Vive ancora a Kyiv, da solo, nel nostro appartamento. Ogni volta che leggo le notizie di un nuovo bombardamento, ho paura che possa succedergli qualcosa. Gli edifici dove vivevano mia nonna e mio zio sono stati danneggiati: nel palazzo accanto a quello della nonna hanno distrutto il tetto, e nella casa di mio zio un missile ha colpito l’ultimo piano. Ora è stato in parte ricostruito, ma resta la ferita.
Non so quando potrò tornare in Ucraina. Prima voglio finire gli studi, costruire il mio futuro. Ma so che un giorno tornerò. Tornerò per me stessa, per la mia famiglia, per il mio Paese. Per ora, aspetto. E affronto ogni giorno con la speranza che prima o poi tutto questo finisca.
Grazie per aver ascoltato la mia storia.